Una docente viene dichiarata inidonea all'insegnamento, e dunque assegnata alla segreteria della scuola. Successivamente aveva rappresentato che occorreva ulteriore personale per l'espletamento dei servizi amministrativi, al punto da comportare una tensione con la dirigenza scolastica. Alle successive rimostranze della docente, il dirigente scolastico aveva reagito sottraendole gli strumenti di lavoro; attribuendole mansioni didattiche, sia pure in compresenza con altri docenti, nonostante l'accertata inidoneità; privandola, infine, di ogni mansione e lasciandola totalmente inattiva. La docente decide di citare in giudizio l'amministrazione scolastica per danni derivanti da mobbing.

Secondo il Tribunale della docente la condotta, richiamando le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio disposta dal medesimo, ha evidenziato che la condotta, seppure non propriamente mobbizzante, integrava un'ipotesi di straining, ossia di stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio. Dal mio punto di vista tuttavia, lo straining non costituisce una categoria giuridica ed anche in medicina legale la sua configurabilità è controversa sicchè, una volta escluse la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti vessatori, non vi sarebbe spazio per l'accoglimento della domanda risarcitoria. In altre parole la sentenza di primo grado è inficiata sotto il profilo di extra o ultra petizione quindi violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e degli artt. 1218, 2043, 2059, 2087 e 2697 c.c. perchè non si è limitata ad applicare una norma giuridica diversa da quella invocata dalla parte bensì "ha creato una nuova fattispecie a cui ha ricollegato in maniera arbitraria ed apodittica conseguenze proprie di altra fattispecie giuridica. 

Può ritenersi ragionevole sollevare questo motivo di ricorso in sede di giudizio di appello ?

Risposta

Il vizio di ultra o extra petizione ricorre solo qualora il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, non già allorquando venga diversamente qualificata la domanda o vengano poste a fondamento della pronuncia considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate dalle parti. In giurisprudenza si è, quindi, evidenziato che non integra violazione dell'art. 112 c.p.c. l'avere utilizzato "la nozione medico-legale dello straining anzichè quella del mobbing" perchè lo straining altro non è se non " una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie.." azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c. (così secondo Cassazione civile sez. lav., 19/02/2018, n.3977).

Peraltro giurisprudenza consolidata oramai ha dato all'art. 2087 c.c. un'interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32,41 e 2 Cost.. Sicchè l'ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perchè si è evidenziato che l'obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell'ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona. Dunque la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti.