L'articolo 2087 c.c. non configura una responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell`esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l`evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall`esperienza, dovendosi tuttavia osservare che il datore di lavoro è responsabile dell`infortunio occorso al lavoratore, sia se ometta di adottare le idonee misure protettive, sia se non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. In tal senso, incombe sul lavoratore l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.
La Corte di Cassazione con l'annotata sentenza ha ricordando che l'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore, in ragione della sua posizione di garante dell'incolumità fisica del lavoratore, di adottare tutte le misure atte a salvaguardare chi presta la propria attività alle sue dipendenze. In particolare, sulla base di una giurisprudenza ormai consolidata, ha ribadito che «la norma in esame non contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza».
D'altro canto, la Corte ha anche precisato che, «incombe sul lavoratore, che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi».
La Corte Suprema ha quindi concluso affermando che la motivazione della Corte di merito «consente di reputare congruamente applicati i principi dettati in sede di legittimità in tema di obblighi di protezione gravanti sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c.». In particolare, dalle argomentazioni della sentenza impugnata, i giudici di legittimità hanno escluso che, «in base ad una valutazione fattuale, del tutto sottratta al sindacato di legittimità, il comportamento del dipendente avesse assunto quei tratti di esorbitanza configurabili in termini di anomalia imprevedibile idonea ad interrompere il nesso di causalità fra l'ambiente nocivo, adeguatamente dimostrato nella specie alla luce della utilizzazione della scala a pioli nel lungo pertugio, ed il danno riportato».
Corte di Cassazione, Sez. Lav. 7 luglio 2020, n. 14082










