La condotta illecita tenuta dal dipendente in esecuzione di un ordine impartito da un superiore gerarchico non vale a far venire meno la giusta causa di licenziamento, se il lavoratore era in grado di comprendere l'illegittimità dell’ordine ricevuto. Infatti, nel rapporto di lavoro non è applicabile la causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p. (divieto di sindacare e di disobbedire agli ordini della pubblica autorità) perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge.
Il caso oggetto della pronuncia in commento riguarda il licenziamento per giusta causa intimato da una Società ad un proprio dipendente che, eseguendo un ordine ricevuto dal proprio superiore gerarchico, aveva contabilizzato nel sistema informatico aziendale l'esecuzione di
lavori in realtà mai eseguiti.
La Corte d‘Appello ha ritenuto illegittimo il licenziamento, ritenendo esclusa la sussistenza del dolo e della colpa nella condotta del dipendente, che si era limitato ad eseguire gli ordini impartitigli dal superiore gerarchico in occasione di una riunione aperta a tutti gli addetti al reparto. Il licenziamento, ad avviso della Corte territoriale, era quindi privo del requisito della giusta causa, sicché la società datrice di lavoro veniva condannata a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno.
La Corte di Cassazione ha osservato che l'esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di licenziamento, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l'art. 51 c.p. ("Esercizio di un diritto 0 adempimento di un dovere"), che esclude la punibilità del comportamento illegittimo.
Ricorda infatti la Corte che, «secondo un risalente a ancora valido indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la scriminante di cui all’art. 51 c.p. trova la sua giustificazione nel divieto imposto ai cittadini di sindacare le norme giuridiche e di disubbidire agli ordini legittimi della pubblica autorità, considera non punibili i fatti preveduti dalla legge come reati, se siano commessi per adempiere a un dovere derivante da tali norme ed ordini.
Tuttavia, gli ordini, come si evince dalla precisa e chiara formulazione della legge, debbono emanare da una pubblica autorità, il che significa che i rapporti di subordinazione presi in considerazione sono esclusivamente quelli che sono previsti dal diritto pubblico. Nei rapporti di diritto privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione sopra indicata, perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge» (in questo senso, cfr. Cass. pen. N. 34961 del 2013; Cass. pen. N. 133 del 1971).
I Giudici di legittimità hanno poi concluso il proprio ragionamento ricordando che la condotta illecita tenuta dal dipendente in esecuzione di un ordine impartito da un superiore gerarchico non vale a far venire meno la giusta causa di licenziamento, se il lavoratore era in grado di comprendere l'illegittimità dell'ordine ricevuto. Su tali presupposti la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata affinché la Corte d'Appello riesamini la fattispecie, basandosi sul presupposto che non è sufficiente l’ordine proveniente dal superiore gerarchico per escludere la sussistenza della giusta causa di licenziamento.
Corte di Cassazione Sez. Lav. 28 settembre 2018, n. 23600