L'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che integra il c.d. mobbing e che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c. consiste nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed eventualmente anche leciti) con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente.

Quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell'evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell'art. 1294 c.c. fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere, dal momento che, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo.

Nella fattispecie una lavoratrice  lamentato comportamenti mobbizzanti tenuti nei suoi confronti propone ricorso con il datore di lavoro e nei confronti di due ex colleghe.

Il Tribunale di primo grado, accoglie il ricorso e condanna il datore di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. e le due ex colleghe a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. al risarcimento del danno biologico. La sentenza viene confermata anche in appello.

Il datore di lavoro ricorre per Cassazione adducendo nei motivi di ricorso la  falsa applicazione delle norme di diritto in punto di mobbing in relazione agli artt. 13, 32 e 35 comma 1 Cost. nonché dell'art. 41 cod. proc. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. per non avere il giudice di appello adeguatamente valutato le risultanze istruttorie e non avere rilevato che le stesse avevano confermato la totale assenza dell'elemento soggettivo del mobbing in capo alla datrice di lavoro.

La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso ha rilevato che «la Corte di appello, dopo avere analizzato in dettaglio atti e comportamenti lesivi imputabili alle preposte ex colleghe e posti in essere in danno della lavoratrice ha ritenuto che questi avessero il carattere della reiterazione e della lesività della dignità della persona e della continuità temporale e che fossero altresì idonei ad assumere portata lesiva ex art. 2087 cod. civ. Ha poi all'evidenza desunto, dalle caratteristiche della condotta, la prova dell'elemento soggettivo del mobbing.

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 28 ottobre 2021, n. 30583