Il datore di lavoro che dubita della veridicità delle malattie comunicate dal lavoratore può avvalersi dei controlli sanitari (c.d. «visita fiscale»). Il datore di lavoro può avvalersi altresì dello strumento processuale dell’accertamento tecnico preventivo (art. 696 Cod. proc. civ.).
I presupposti per l’esperibilità dell’accertamento tecnico preventivo sono il fumus boni iuris, il peri- culum in mora e il consenso del lavoratore. Un accertamento tecnico preventivo eseguito senza il consenso del lavoratore è inammissibile. Il mancato consenso del lavoratore è espressione di una legittima facoltà processuale e non può integrare grave inadempimento ai fini di un licenziamento per giusta causa.
La Corte d'Appello ha rammentato che il datore di lavoro che nutre dubbi sulla veridicità delle malattie comunicate dal lavoratore può in primo luogo avvalersi dei controlli sanitari (c.d. «visita fiscale»). Questi controlli, ha proseguito la Corte, sono apprestati dall'ordinamento allo scopo di verificare le effettive condizioni di salute del dipendente e accertare l'impossibilità della prestazione lavorativa. «Il datore», ha spiegato la Corte, «può certamente avvalersi anche dello strumento processuale dell'accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c. [...] In questa ipotesi, ai soliti presupposti per la sua esperibilità, che sono il fumus boni iuris (vale a dire la probabile esistenza del diritto per cui si chiede la cautela) e il periculum in mora (vale a dire la probabilità che il diritto rimanga frustrato nelle more del giudizio di merito), si aggiunge il presupposto del consenso della persona nei cui confronti l'istanza è proposta. È pertanto inammissibile un accertamento tecnico preventivo richiesto dal datore di lavoro sulla persona del lavoratore, in assenza di preventiva autorizzazione dello stesso». D'altro canto, ha proseguito la Corte, «occorre osservare che buona parte della giurisprudenza di merito ritiene, da un lato, che la mancata preventiva richiesta di controlli fiscali e la proposizione del ricorso cautelare dopo un significativo lasso di tempo dall'inizio della malattia costituiscano elementi atti a escludere la sussistenza del requisito del "periculum in mora"; e, dall'altro, che il mancato consenso non costituisca argomento di prova. L'esercizio, infatti, di una legittima facoltà processuale, riconosciuta, peraltro, dall'ordinamento a tutela della dignità umana (perché nessuno può essere sottoposto ad accertamenti medici senza preventiva autorizzazione), non può assumere una valenza negativa ed essere utilizzato - per questo solo motivo - ai danni del soggetto che liberamente decida di non prestare il proprio consenso. L'esercizio di tale legittima facoltà è equiparabile ad ogni altro argomento difensivo sostenuto dal lavoratore nell'ambito del rapporto processuale al fine di opporsi all'iniziativa giudiziale promossa dal datore di lavoro [...].
Quando il datore di lavoro, rinunciando ad avvalersi degli strumenti amministrativi di controllo, ha deciso di agire ex art. 696 c.p.c. ha liberamente accettato le "regole" di tale iniziativa giudiziaria, tra cui il rischio di vedersi (legittimamente) negato il consenso da parte del lavoratore. Poiché non sussiste un generale obbligo del lavoratore di accondiscendere passivamente alle iniziative processuali del datore di lavoro, l'esercizio legittimo da parte del lavoratore di una facoltà riconosciutagli dall'ordinamento processuale non potrà mai assurgere a "grave inadempimento"».
Corte d'Appello di Milano 16 maggio 2018, n. 916