La Corte di Cassazione Sez. Lav., con la sentenza dell'11 aprile 2024, n. 9801
ha affermato che l’accettazione di cariche sociali, nella specie Presidente del Consiglio di amministrazione di una “società cooperativa sociale”, non incorre nella incompatibilità assoluta di cui all’art. 60 del d.p.r. n. 3 del 1957, ma è assoggettata alla necessaria richiesta di autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza di cui all’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001.
La sentenza in commento è conseguente al ricorso proposta da un dipendente pubblico avverso il licenziamento disciplinare perchè aveva assunto una carica sociale all’interno di una società cooperativa (nello specifico la presidenza del C.d.A.), in violazione delle norme che disciplinano le incompatibilità e cumulo di impieghi nella pubblica amministrazione. In sede di appello era stato confermato il licenziamento.
Il dipendente ha prodotto ricorso per cassazione deducendo che a suo giudizio la Corte di appello nel respingere il ricorso non avrebbe fatto una corretta applicazione delle disposizioni del DPR n. 3 del 1957, che escludono dal generale divieto di assunzione di cariche sociali da parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 60 del d.p.r., le cariche in società cooperative (art. 61 d.p.r. n. 3 del 1957).
La Corte di cassazione chiarisce che tale ultima disposizione si limita ad escludere che il lavoratore, che assume una carica sociale in una società cooperativa, incorra in un’ipotesi di incompatibilità assoluta; ciò, tuttavia, non significa che a tale attività non si applichi sia la disciplina di cui all’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001, che – nel caso di specie, poiché si tratta di un rapporto di un lavoratore dipendente del Ssn – la disciplina dell’art. 4, co. 7, l. n. 412 del 1991.
Posto che l’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001 tende a garantire l’obbligo di esclusiva del dipendente pubblico, assoggettando al vaglio dell’amministrazione di appartenenza l’eventuale richiesta di incarichi extra istituzionali e che l’art. 4, co. 7, l. n. 412 del 1991 statuisce l’incompatibilità di ogni altra attività o titolarità di quote di imprese che possa configurare conflitto di interessi, a giudizio della Corte si deve ritenere che l’assunzione di cariche, in assenza dell’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, determini una responsabilità disciplinare in capo al lavoratore. Ciò senza che rilevi in alcun modo – come già da giurisprudenza costante di legittimità – il carattere gratuito dell’incarico assunto. In merito, poi, alla scelta della sanzione disciplinare, la Corte ribadisce, anche in questa pronuncia, l’assenza di «qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare» e la sussistenza di un obbligo del giudice di valutare la gravità dei fatti addebitati, «in relazione alla portata oggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale» e così verificare il rispetto del principio di proporzionalità. Tali motivazioni portano a respingere tutti i motivi di ricorso e alla conferma della sentenza impugnata.