Il problema dell’incompatibilità e del cumulo con il rapporto d’impiego delle attività lavorative extra scuola, da parte del personale ATA impegnato a tempo pieno nella scuola statale, è regolato in modo non sempre uniforme. La disciplina delle incompatibilità e degli incarichi extraistituzionali che i dipendenti pubblici possono accettare e cumulare con il rapporto di lavoro a tempo pieno è contenuta nell’art.53 del D.L.vo n.165/2001. Tale norma nel confermare le pregresse disposizioni sulle incompatibilità e cumulo d’impieghi contenute nell’art.60 del T.U. 10/1/57, n.3, ha escluso per le pubbliche amministrazioni la possibilità di conferire ai dipendenti incarichi “non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati”. Tale divieto, come precisato dal comma 6 dello stesso articolo 53, riguarda “tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso”. Le richiamate norme sono ispirate al principio di esclusività che lega il dipendente pubblico all’amministrazione. La fonte giuridica primaria relativa all’esclusività della prestazione di lavoro e all’incompatibilità nel pubblico impiego è rinvenibile nell’art. 98 della Costituzione in cui si statuisce che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”; principio questo fortemente in crisi, per le tendenze accentuate verso la cd. “privatizzazione” dei rapporti lavoro e la liberalizzazione delle relative discipline.

Il dipendente pubblico, in applicazione del dovere di esclusività, non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fini di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato.

L’art. 53 del D.L.vo n. 165/2001 prevede, al comma 7, che “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza” ed, inoltre, che “le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in ogni caso infrazione disciplinare per il funzinario responsabile del procedimento; il relativo provvedimento è nullo di diritto. In tal caso l’importo previsto come corrispettivo dell’incarico, ove gravi su fondi in disponibilità dell’amministrazione conferente, è trasferito all’amministrazione di appartenenza del dipendente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti” (comma 8).

Pertanto, le autorizzazioni devono essere richieste all’amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati che intendono conferire l’incarico oppure dal dipendente interessato (comma 10) con congruo anticipo rispetto alla data di inizio lavoro extraistituzionale e non sarà possibile svolgere l’incarico fino al momento del rilascio e della notifica dell’autorizzazione. Nel caso in cui la data di inizio dell’incarico sia antecedente a quella di richiesta dell’autorizzazione, quest’ultima non dovrà essere rilasciata. In caso di mancata richiesta di autorizzazione all’amministrazione di appartenenza, ai soggetti pubblici e privati conferenti gli incarichi si applicano le sanzioni previste dall’art. 6, comma 1, del D.L. n. 79/1997, convertito, con modificazioni, nella legge 28.5.1997, n. 140, fra le quali la principale consiste nel pagamento di una somma pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici. Ad essa si aggiungono le sanzioni per eventuali e concorrenti violazioni tributarie o contributive. Il personale che contravvenga a tali divieti, viene diffidato a cessare dalla situazione di incompatibilità; ovvero il personale che svolge altra attività lavorativa senza richiesta di autorizzazione, l’Amministrazione ha facoltà di sottoporlo a procedimento disciplinare anche se ottempera alla diffida.

La decadenza è applicabile a tutti i dipendenti pubblici in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma primo, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. La diffida non si limita a richiamare un obbligo di legge, ma contiene contestualmente una determinazione volitiva, poiché rivolge al dipendente l’ordine di cessare dall’accertata situazione di incompatibilità, dandogli solo la scelta di optare tra la cessazione dell’attività incompatibile e la decadenza dall’impiego. La diffida è immediatamente impugnabile in quanto atto avente rilevanza esterna e, quindi suscettibile di ledere la sfera giuridica del destinatario, poiché la preannunciata decadenza si verifica certamente in caso di inottemperanza. Trascorsi 15 giorni dalla diffida, senza che l’incompatibilità sia cessata, il dipendente decade dall’impiego. Lo stato di incompatibilità non produce “ex se” la decadenza dal rapporto di lavoro. Si tratta quindi di un provvedimento a carattere dichiarativo e ricognitivo di una situazione già intervenuta “ope legis”. L’atto di diffida e il provvedimento di decadenza sono adottati dal dirigente scolastico. Sono atti definitivi ed in quanto tali ricorribili solo per via giurisdizionale e non gerarchica. Il provvedimento di decadenza per incompatibilità retroagisce alla data di scadenza del termine stabilito dalla diffida, anche se il dipendente di fatto, continua a prestare servizio. La retroattività del provvedimento non pregiudica comunque il diritto al trattamento economico, quando vi sia stata effettiva prestazione di servizio.

La decadenza non ha natura sanzionatoria o disciplinare, ma costituisce una diretta conseguenza della perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Sentenza n. 20555 del 6/8/2018). È, però, necessario tenere distinte le questioni della responsabilità contestabile al pubblico dipendente, ad esempio, quando non ha chiesto ed ottenuto formale autorizzazione, con il problema della validità giuridica del rapporto di lavoro privatistico intrattenuto in contemporanea con altro datore di lavoro. In tal senso la Corte di Cassazione ricorda come il divieto di svolgimento di altra attività sia posto nell’interesse della pubblica amministrazione. In ogni caso, è indispensabile sottolineare che le attività extra-istituzionali “per assurgere ad elemento assolutamente contrastante col rapporto di pubblico impiego tale da determinare una vera e propria incompatibilità, passibile della sanzione di decadenza ai sensi dell’art. 63 stesso T.U., devono rivestire il carattere, oltre che della continuità, anche della professionalità, intendendo per tale un’attività che sia prevalente rispetto ad altre nonché direttamente e adeguatamente lucrativa”.

Nel momento in cui dovessero emergere dubbi sulla compatibilità tra attività istituzionale ed attività extra-istituzionale, svolte dal personale amministrativo, è indispensabile un esame analitico del singolo caso pratico, che richiede, pertanto, una valutazione di tutte le circostanze di fatto e di diritto contrassegnanti le attività effettuate.