Il diritto di critica è legittimante esercitabile dal di­pendente nei limiti della continenza e della veridicità dei fatti menzionati, assumendo rilievo l'esposizione veritiera e corretta di un fatto nell'esercizio del dirit­to di manifestazione del pensiero, sia dal punto di vista sostanziale che formale. In particolare, sotto il primo profilo, i fatti narrati devono appunto corri­spondere alla verità, sia pure non assoluta ma sog­gettiva e, sotto il secondo, l'esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere conte­nuta negli spazi strettamente necessari all'esercizio del diritto di critica. Tali limiti debbono essere valu­tati con particolare rigore laddove la critica sia avan­zata nell'ambito di una azione sindacale.

La Suprema Corte ha affermato che, pur non esistendo una "scriminante sindacale" che legittimi ogni comportamento tenuto all'interno dell'impresa è pur vero che ad ogni dipendente, così come ai rappre­sentanti sindacali, è riconosciuto un dritto di critica che è «legittimante esercitabile dal dipendente nei limiti della continenza e della veridicità dei fatti menzionati, assumendo rilievo l'esposizione veritiera e corretta di un fatto nell'esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sia dal punto di vista sostanziale che formale. In particolare, sotto il primo profilo, i fatti narrati devo­no appunto corrispondere alla verità, sia pure non asso­luta ma soggettiva e, sotto il secondo, l'esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari all'eserci­zio del diritto di critica.»

Il diritto di critica incontra i medesimi limiti anche lad­dove la stessa sia espressa nell'ambito di un'azione sin­dacale ma, sempre secondo la Corte, in questo ambito «tali limiti debbono essere valutati con particolare rigo­re».

Nel caso di specie la Cassazione, pur osservando che il contenuto del documento non era stato riportato nella sentenza impugnata, ha ritenuto che lo stesso - per quanto era possibile comprendere con gli elementi a di­sposizione - potesse ritenersi rientrante nell'espressione del diritto di critica del dipendente.

A tal proposito la Suprema Corte ha, infatti, criticato la sentenza della Corte territoriale poiché non ha in alcun modo esaminato il contenuto del documento al fine di verificare se lo stesso fosse di natura denigratoria né ha tenuto conto del contesto sindacale nell'ambito del quale lo stesso era stato prodotto.

La Corte ha proseguito, poi, sottolineando che solo ove i limiti sopra indicati della continenza e della veridicità «siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale od a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comporta­mento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare». Il carattere denigratorio del documento, però, non era stato accertato nel caso di specie e, pertanto, lo stesso doveva ritenersi espressione legittima del diritto di critica del lavoratore, con conse­guente assorbimento di ogni ulteriore questione (inclusa la responsabilità nella diffusione del documento, non denigratorio e quindi legittimo, all'esterno dell'azienda)

Corte di Cassazione Sez. Lav. 10 luglio 2018, n. 18176