La Corte di Cassazione, Sez. Lav., con la sentenza del 19 ottobre 2021, n. 28911, ha affermato che, posto che costituisce grave insubordinazione, come tale passibile di licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore che si rifiuti di eseguire la prestazione, deve essere cassata con rinvio la sentenza di merito che, concentrandosi esclusivamente sulle frasi proferite dal lavoratore, abbia trascurato la valutazione di tutti i comportamenti a lui addebitati, tralasciando il profilo dell'adempimento della direttiva impartita. In sostanza, la Corte ha trascurato di comparare l'infrazione disciplinare con le tipizzazioni di giusta causa contenute nel CCNL che, seppur non vincolanti e meramente esemplificative, rappresentano comunque il parametro cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all'art. 2119 cod. civ.

La vicenda trae origine da un licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro al lavoratore, addetto a mansioni di guardia giurata, per avere lo stesso adottato un comportamento verbalmente aggressivo nei confronti della direttrice amministrativa del Tribunale di Sorveglianza (presso cui il lavoratore svolgeva il proprio turno di servizio di vigilanza) che l'aveva invitato a spostare la propria automobile parcheggiata, senza autorizzazione, nello spazio riservato ai mezzi utilizzati dalla Polizia Penitenziaria per il trasporto dei detenuti e riconducendo per ciò il comportamento del lavoratore alla grave insubordinazione.

La Corte d'Appello, in riforma della pronuncia del Tribunale, respingeva la domanda di annullamento del licenziamento disposto nei confronti del dipendente.

Il dipendente ha proposto ricorso per cassazione, censurando in particolare la decisione della Corte d'appello, avendo la stessa trascurato che il lavoratore, a seguito della segnalazione della direttrice amministrativa, aveva spostato la propria autovettura, dando esecuzione all'ordine, così non integrando la previsione negoziale e legislativa punita con licenziamento per giusta causa.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso del dipendente e ribadisce, innanzitutto, che essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, le previsioni disciplinari della contrattazione collettiva non sono vincolanti per il giudice di merito. Tuttavia, la «scala valoriale» recepita nelle previsioni della contrattazione collettiva costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 cod. civ.

D'altronde, ricorda la Corte di Cassazione, l'art. 30 della legge n. 183/2010 ha previsto che «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro» (cfr. Cass., 32500/2018).

La Corte di Cassazione ricorda, poi, che il giudice del merito è vincolato dal contratto collettivo solo ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento solamente una sanzione conservativa, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. 604/1966, art. 12).

Infine, sempre in relazione ai rapporti tra licenziamento e previsioni disciplinari della contrattazione collettiva, la Suprema Corte ricorda quanto in precedenza ripetutamente affermato, ossia che la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato e accertato rientra nella previsione dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, «solamente nell'ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa.

Al di fuori di tale caso, secondo la consolidata esegesi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 in base alla quale il regime risarcitorio del comma 5 deve ritenersi di carattere generale, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali dell'art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 2018 prevede la tutela indennitaria c.d. forte» (Cass. 13178/2017, Cass. 18823/2018, Cass. 25534/2018, Cass. 31839/2019).

Richiamati tali principi, ritiene la Corte di Cassazione che agli stessi non si sia attenuta la Corte territoriale, anche considerando che nel caso di specie la contestazione disciplinare contemplava, oltre alla condotta verbalmente aggressiva del lavoratore nei confronti del superiore gerarchico, anche lo spostamento dell'autovettura privata (circostanza questa trascurata dalla Corte d'Appello).Invero – rileva la Suprema Corte come più ampiamente riportato nella massima – la Corte territoriale «ha trascurato di esaminare tutte le circostanze, soggettive od oggettive, che eventualmente avrebbero potuto consentire di escludere, in concreto e pur a fronte di un fatto astrattamente grave, l'idoneità dell'inadempimento a configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo, e, pertanto, avrebbero potuto determinare una sproporzione tra la condotta così come effettivamente realizzata ed il licenziamento».Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello.