Il mobbing designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, la cui prova è a carico del lavoratore: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Requisiti che, peraltro, ribadisce la Corte, è onere del lavoratore dimostrare. La Cassazione conferma altresì l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che individua nell'intento persecutorio l'elemento qualificante del mobbing e nel caso di specie, correttamente, la Corte d'Appello aveva posto tale elemento soggettivo a fondamento del rigetto della domanda della lavoratrice. In particolare, si specifica con riferimento alle sanzioni disciplinari irrogate dall'ente datore di lavoro, che la legittimità di tali provvedimenti può rilevare in quanto sintomatica della mancanza dell'intenzione persecutoria necessaria per l'integrazione della fattispecie in esame, così come la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio.
Corte di Cassazione, Sez. Lav. ord. 4 marzo 2021, n. 6079